Psicoanalisi Freudiana

ARCHIVIO DEL FORUM FREUD 
(luglio - agosto 2003)

 

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Esich mercoledi 2 luglio 2003 - 19.29.42
chat del 2 luglio 2003
Penso di fare cosa gradita a tutti nel mandarvi la chat del 2 luglio 2003:
(segue il testo della chat che trovate sulla chat stessa al link "i testi scritti delle chat")

Gianpietro Séry mercoledì 2 luglio 2003 - 20.24.58
Grazie esich e grazie agli amici del mercoledi vecchi e nuovi
Ringrazio esich che con la precisione di sempre ha spedito il testo della chat dopo avere avuto l'onere e l'onore di fare da ospite su mia proposta.
Già mi ha promesso che ripeterà la sua presenza in chat tutte le volte che potrà.
Rimane comunque fermo che, essendo una libera piazza di pensieri e parole, chiunque lo desideri può farsi ospite a sua volta con nostro grande piacere (come già ha preso iniziativa l'amico Logio, che spero la riprenda volentieri sia nel "mercoledi" che altrove).
Ancora grazie a tutti.

Logio giovedì 3 luglio 2003 - 1.29.30
Il prossimo
Il “prossimo”
Si racconta che un dottore,quindi un interprete e maestro, della Legge, volendo farsi un idea del pensiero di Cristo, lo interroga: “Maestro, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?”
Gesù risponde domandandogli:
“Nella Legge cosa sta scritto? Come vi leggi?”
Il dottore risponde che vi sta scritto : “Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso”.
Gesù gli dice: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”
Intanto troviamo insieme i due precetti dell’ amore di Dio e del prossimo.
A questo punto il dottore domanda ancora: “Ma chi è il mio prossimo?”
A chi deve riferirsi il termine “prossimo” ai soli parenti, ai soli amici, ai connazionali, ai correligionari, ai nemici, agli idolatri, agli incirconcisi ecc.? Possibile che fosse un prossimo ognuno di essi?
“Chi è il mio prossimo?”
A questa domanda Gesù risponde raccontando la vicenda di un viandante che viene rapinato e lasciato in fin di vita dai briganti sulla strada che conduce da Gerusalemme a Gerico.
Un sacerdote e un levita, passando da quelle parti, vedono il malcapitato e non si trattengono presso di lui. Si ferma invece un samaritano e si prende cura di lui, facendo tutto il possibile per aiutarlo.
Dopo aver raccontato la storia del viandante, Gesù domanda al dottore chi fosse, a suo parere, il prossimo di “…colui che aveva incontrato i briganti”.
Il dottore risponde che è quello che ebbe compassione di lui, quindi quello che si fermò a soccorrerlo.
A questo punto Gesù esorta il dottore a fare la stessa cosa:
“Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
A chi gli domanda: “ Chi è il prossimo?” Gesù mostra chi agisce da prossimo aggiungendo l’ esortazione a fare altrettanto: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
Dei tre: un sacerdote, un levita, un samaritano, solo il samaritano agisce da prossimo.
Chiunque può essere prossimo perché può agire da prossimo.
In un libro di Franz Rosenzweig, la cui edizione in italiano è intitolata “La stella della redenzione”, leggo che il termine “prossimo” significa colui che di volta in volta è, nell’ istante dell’ amare, il più vicino, colui che, comunque, qualunque cosa sia stato prima di questo istante d’ amore o sarà in seguito, è per me, in questo istante, soltanto il mio prossimo.
Il prossimo, quindi, non viene amato, per ciò che ha, per il suo ruolo sociale, o posizione parentale, bensì soltanto perché si trova proprio qui, perché è proprio il mio prossimo.
Al suo posto, che mi è il più vicino, potrebbe stare chiunque altro.
L’ amore è indirizzato a tutti coloro che potrebbero, una volta o l’ altra occupare questo posto, è indirizzato, in definitiva a tutto l’ universo.
Gesù incontra la Samaritana al pozzo, sono soli, anche se non sulla strada che da Gerusalemme conduce a Gerico: la Samaritana “prossimo” per Gesù.
Ma, Gesù, “prossimo” per la Samaritana?
Gesù chiede a lei da bere esortandola ad agire da “prossimo”. La donna fa obiezione.
E’ stato bene che si incontrassero un uomo d’affari samaritano e un viandante lasciato in fin di vita dai briganti.
E’ stato proficuo.
Per entrambi.
Logio
Bibliografia:
Ricciotti Giuseppe, Vita di Gesù Cristo, Mondadori
Nuovo testamento
Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti

Logio giovedì 3 luglio 2003 - 1.41.12
Ancora su "prossimo"
Mi sorprendo ad aver pensato: "Ama chi agisce nei tuoi confronti da prossimo come te stesso"
E' un pensiero che condivido per un' eventuale discussione.
Logio

Gianpietro Séry giovedì 3 luglio 2003 - 19.09.57
buoni samaritani perchè buoni affaristi...
Porto un contributo che non è mio, ma un taglia incolla da un articolo di G.B.Contri che mi sembra molto opportuno.
Di mio dico solo che nella parabola c'è un rovesciamento che ricorda il continuo scambio di posto Soggetto e Altro in un rapporto che funziona bene (senza fissazione) con beneficio reciproco...
"Ama il prossimo" (e sembra che il prossimo sarebbe, per il samaritano, quell'altro che è nel bisogno) e poi "chi è stato il prossimo di quell'uomo" (e il prossimo diventa il samaritano...)...
Mi sembra un ottimo esempio del pensiero di Cristo (per cui faceva imbestialire il "nevroticismo" farisaico: legge non di natura ma di cavilli): il valore economico è sempre nel moto mai fisso della legge di beneficio (principio di piacere), che è per entrambi i soci.
Dice G.B.Contri:
Un buon esempio...
"senza separazione di spirituale-morale da giuridico-reale, è noto come "buon Samaritano". Vediamone la ragione, più corrotta come samaritanismo o amore come idea fissa superiore ossia senza ragione. La scopriamo meglio nella sua eccedenza, supplementarietà: questo uomo non si limita a non uccidere, ma opera in modo che l’altrui uccidere non vada a termine (e senza farsi giustiziere né vendicatore). Ri-costituisce l’Universo. Allo stesso tempo è persona normale - parola da riabilitare -, perché viaggia per i suoi affari. Una volta scartata l’idea fissa- l’amore come meccanismo o istinto sublime da animale spirituale, che è la più vecchia delle bestemmie: Dio amerebbe per istinto- appare la sola ragione, quella patrimoniale: l’Universo umano, rappresentato di volta in volta da ogni singolo, è suo personale bene. O anche, come si dice familiarmente: "i suoi".
Collochiamo qui il concetto giuridico di usufrutto: quel possesso di cui si continua a godere legittimamente finché lo si tratta bene, e non lo si lascia ammalorare (Agostino si è cimentato con la coppia uti/frui). In questa ragione l’individuo ha a cuore (eccolo il "cuore": è razionale) l’Universo come tale in quanto la fonte, in ogni sua parte, del bene-essere di quell’individuo. Allora la sede competente dell’universalità può essere l’individuo stesso, non lo Stato di cui sopra, che collettivizza, per espropriazione, questa potenziale facoltà individuale, e peraltro con una soluzione che non può che essere utilitaristica (calcolo).
Gesù, parlando del Samaritano, ha detto che ognuno potrebbe assumere in proprio la legge universale di beneficio personale (o "amore") – sedes iuris come si dice sedes sapientiae - senza scoraggiarsi sapendo che le cose non andavano così. Penso che sia proprio su questo punto (di potere o non potere) che ha detto: "Senza me non potete". E proprio lui trattava l’ universo come possesso personale ("i suoi" scrive S. Giovanni, "tutto [Universo] è vostro come voi di Cristo", rincarava S.Paolo).
O anche: senza mio Padre non potete. Il pensiero di Cristo sulla legislazione universale implica la concezione reale-patrimoniale (patri-moniale) del bene, non quella astratta-ideale-greca. Non c’è essere che nel ben-essere, ossia ancora il dogma della paternità."

Logio venerdì 4 luglio 2003 - 22.51.26
Un errore su prossimo
In uno scritto che ho pubblicato qui si legge:
“Gesù incontra la Samaritana al pozzo, sono soli, anche se non sulla strada che da Gerusalemme conduce a Gerico: la Samaritana “prossimo” per Gesù.
Ma, Gesù, “prossimo” per la Samaritana?
Gesù chiede a lei da bere esortandola ad agire da “prossimo”. La donna fa obiezione”.
Vedete tutti che in questo scritto continuo con un errore che sto cercando di riconoscere?
Vedete che qui per me non è prossimo chi agisce da prossimo e cioè Gesù, ma continua ad essere prossimo chi riceve il beneficio?
Se l’ avessi scritto oggi, in questo momento, l’ avrei scritto così:
Gesù è prossimo per la Samaritana (cioè: Gesù agisce da prossimo accogliendola). Ma la Samaritana? E’ prossimo per Gesù? Ovvero agisce da prossimo nei confronti di Gesù?
A parte le risposte che si potrebbero dare al quesito resta che così formulato ha un senso diverso.
Questo che vuol dire? Che anch’ io sono abituato a considerare prossimo come soccombente, contuso, fragile, offeso, mentre il prossimo della vicenda raccontata da Gesù al dottore della Legge è ricco, almeno fino al punto di beneficare un soggetto in disgrazia.
Allora mi rimane da scrivere un’ altra cosa alla quale penso da stamani:
“Se il prossimo è colui che mi accoglie, che mi apre la sua casa, posso entrare in casa sua, rapinarlo, rubargli la donna, oppure amarlo come me stesso”.
Sulla parola “amarlo” c’è da scrivere. La prima che mi viene è questa: che posso agire in modo da non ferirlo, in modo da beneficarlo rispondendo al suo amore.
Logio.

Logio sabato 5 luglio 2003 - 16.34.57
Un commento non mio al Samaritano
Inserisco il commento alla parabola del Samaritano, che ho trovato nel libro di Alberto Maggi “Parabole come pietre”, pubblicato da Cittadella editrice. Ho omesso di mettere le note, perché sarebbe stato un lavorane. Spero di aver fatto una cosa gradita agli amici.
Con la parabola del Samaritano, propria di Luca, Gesù modifica radicalmente due concetti fondamentali della religione, quello del credente e quello del prossimo. Nell'ebraismo il credente era colui che obbediva a Dio osservando la sua Legge, e il prossimo era l'individuo da amare per attrarre la benedizione divina. Nel nuovo rapporto, instaurato da Gesù col Padre, cambia sia la relazione degli uomini con Dio sia quella con i fratelli.
Contesto:
Gesù aveva inviato i Dodici ad annunciare il regno di Dio (Lc 9, 1), ma la missione non aveva avuto l'effetto sperato. Chiamati a seguire colui che "è venuto per servire" (Lc 22,27), i suoi discepoli continuano a nutrire sentimenti di ambizione e di grandezza che li rendono refrattari al messaggio di Gesù (Lc 22,24) e quindi incapaci di annunciarlo.
Alla base delle loro ambizioni c'è il tenace attaccamento alla tradizione nazionalista della supremazia di Israele su tutte le altre nazioni. Questo fa sì che, nonostante Gesù abbia dato ai suoi discepoli "forza e potere su tutti i demoni" (Lc 9,1), essi sono incapaci di liberare gli indemoniati dalla loro oppressione. Animati essi stessi dal demonio del predominio e della violenza, i discepoli non possono liberare quanti ne sono posseduti.
Non solo i Dodici non riescono a cacciare i demoni, ma nella loro arroganza intendono impedirlo anche a quanti vi riescono: "Abbiamo visto un tale che scacciava demoni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito perché non ti segue insieme a noi" (Lc 9,50).
Visto il fallimento dei Dodici, Gesù ora invia gli "altri settantadue". Mentre dodici è il numero che raffigura il popolo di Israele, composto dalle dodici tribù (Gen 49), i settantadue, che mai vengono definiti discepoli, richiamano il numero dei popoli pagani secondo l'elenco contenuto nel capitolo decimo del Libro della Genesi. Il numero, che svincola i settantadue da Israele e dalle sue aspirazioni, indica un'apertura universale.
La missione ottiene così i frutti sperati e "i settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: «Signore, anche i demoni si sottomettono a noi
nel tuo nome»". E’ a questo proposito che Gesù esclama: "Vedevo il satana cadere dal cielo come una folgore" (Lc 10,17-18).
Mentre i Dodici, animati da sentimenti di supremazia e di vendetta sugli altri popoli, avevano chiesto a Gesù di distruggere gli abitanti del villaggio samaritano che non li aveva ricevuti, l'effetto della predicazione dei settantadue è la caduta dal cielo non di un fuoco che annienti gli uomini, ma del satana, il distruttore degli uomini (Ap 12,9).
Secondo la cultura dell'epoca il ruolo del satana consisteva nel sedurre gli uomini, accusarli dinanzi a Dio e infliggere così la pena di morte.
Da quando Gesù ha annunciato che l'amore del Padre non viene condizionato dal comportamento degli uomini e che il suo amore continua a effondersi su tutti quanti, persino sugli "ingrati e i malvagi" (Lc 6,35), il ruolo del satana, di accusatore presso Dio, diventa inutile: "Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte" (Ap 12,10).
Per questi motivi Gesù gioisce e la sua esultanza viene dall'evangelista così descritta:
"In quella stessa ora Gesù esultò nello Spirito santo e disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra
perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così hai voluto nella tua bontà»" (Lc 10,21).
Una volta cacciato l' intruso dal cielo (il satana), finalmente il Padre può essere proclamato "Signore del cielo" e la sua signoria riconosciuta "così in cielo come in terra" (Mt 6,10).
L'avvenimento è importante perché è l'unica volta, in tutto il vangelo, in cui si parla dell’ esultanza gioiosa di Gesù, e questa si deve al fatto che finalmente c'è un gruppo di suoi seguaci capace di liberare la gente dalle false ideologie che l'imprigionano e che impediscono di scorgere il vero volto del Padre.
"Queste cose", che Gesù dichiara nascoste ai "sapienti e ai dotti", si riferiscono alla sua missione universale. Egli non è venuto a restaurare il regno d'Israele, ma a inaugurare il regno di Dio. Mentre il primo era il regno che privilegiava un popolo e escludeva gli altri, il secondo è rivolto agli esclusi. Questo disegno di Dio rimane nascosto ai grandi, a quanti sul privilegio di Israele basano il proprio prestigio, e viene svelato agli esclusi, i piccoli. Chi siano questi dotti e sapienti e chi i piccoli, l'evangelista lo illustra con la parabola del Samaritano (Lc 10,25-37).
Lc 10, 25 Ed ecco un dottore della Legge si alzò per tentarlo dicendo: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
Alle parole di Gesù fa eco la reazione stizzita di un "dottore della Legge", che interrompe Gesù mentre sta ancora parlando. Il titolo dottore della Legge nei vangeli si trova quasi esclusivamente in Luca e ha lo stesso significato di scriba (Lc 5,21), colui che aveva l' autorità divina di insegnare la Scrittura al popolo.
Il grande prestigio di cui gode nel mondo ebraico il dottore della Legge è confermato dalla Bibbia. Nel Libro del Siracide si legge che lo scriba "svolge il suo compito fra i grandi, è presente alle riunioni dei capi e il suo nome vivrà di generazione in generazione" (Sir 39,4.13). Nel Talmud si arriva ad affermare che l'insegnamento degli scribi aveva lo stesso valore della Parola di Dio: "Tutte le parole degli scribi sono parole del Dio vivente".
Gesù, che non condivide l'ossequiosa riverenza del popolo verso i dottori della Legge, aveva affermato che costoro avevano "reso inutile per loro il disegno di Dio" (Lc 7,30), avendo rifiutato di farsi battezzare da Giovanni il Battista. Per Gesù non solo i dottori della Legge sono refrattari alla volontà di Dio, ma sono coloro che la rendono impossibile da osservare al popolo: "Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito! Guai a voi che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. Così voi testimoniate e approvate le opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite... Guai a voi dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza, voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l'avete impedito" (Lc 11,46-48.52).
Il dottore della Legge protagonista del brano si alza per tentare Gesù. Il verbo tentare, nel vangelo di Luca, si trova solo due volte: nella risposta di Gesù al diavolo nel deserto e nell'azione di questo dottore della Legge. Mediante questo espediente letterario l'evangelista identifica nel dottore della Legge il diavolo che, al termine delle tentazioni nel deserto, "dopo aver esaurito ogni specie di tentazione si allontanò da lui per ritornare al tempo opportuno" (Lc 4,13).
Per l'evangelista il dottore della Legge, chiamato a far conoscere la volontà di Dio al popolo, incarna in realtà il diavolo, colui che vuol impedire il compimento del disegno di Dio sull'umanità. Per questo ciò che gli scribi insegnano al popolo non è la parola del Signore, ma una menzogna che serve a coprire i loro interessi: "Come potete dire: Noi siamo saggi, la Legge del Signore è con noi? A menzogna l' ha ridotta la penna menzognera degli scribi!" (Ger 8,8).
Il dottore della Legge si rivolge a Gesù chiamandolo "Maestro ", titolo che nasconde la falsità della domanda e l'ipocrisia di colui che la pone. Il dottore della Legge non vuol apprendere da Gesù, ma solo interrogarlo, per controllare se è in linea con l'insegnamento religioso ortodosso riguardo alla vita eterna, tema finora mai trattato da Gesù.
26 Egli allora gli rispose: «Nella Legge cosa è scritto? che capisci?».
Gesù non risponde alla domanda postagli, ma rimanda l'esperto Legislatore alla Legge che tanto bene dovrebbe conoscere.
Non solo gli chiede che cosa c'è scritto, ma, con profonda ironia, se riesce anche a comprendere quel che legge: che capisci?
Per Gesù il dottore della Legge appartiene ai dotti e ai sapienti ai quali il Padre ha nascosto il suo disegno. Chi appartiene al potere insegna un messaggio che egli stesso non capisce, perché la lettura e la conoscenza della Scrittura non sono garanzia della sua comprensione. La Parola di Dio si svela solo a quanti mettono il bene dell'altro al primo posto nella loro esistenza. È questa la verità che permette l'ascolto della voce del Signore.
27 Ed egli rispondendo disse: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua vita e con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso».
Il dottore risponde citando due brani della Legge. Il comando dell'amore totale e assoluto verso Dio, contenuto nel Libro del Deuteronomio (Dt 6,5), e un precetto, contenuto nel Libro del Levitico, riguardante l'amore al prossimo (Lv 19,18).
28 Gli disse: «La risposta è ortodossa. Fai questo e vivrai».
Il dottore della Legge aveva interrogato Gesù per esaminare la sua ortodossia in materia religiosa, invece si trova lui a essere interrogato.
La risposta di Gesù è profondamente ironica: al difensore dell'ortodossia risponde che la sua risposta è sì ortodossa, ma che non basta un'esatta professione di fede, occorre praticarla per vivere (Lv 18,5).
Il dottore della Legge ha rivolto a Gesù una domanda sulla vita eterna, ma nella sua risposta Gesù parla solo di vita, omettendo eterna. Due volte nel vangelo di Luca viene rivolta a Gesù una domanda riguardo alla vita eterna (Lc 18,18), e tutte e due le volte Gesù evita nella sua risposta il termine eterna. I due personaggi che interrogano Gesù sulla vita eterna appartengono alla sfera del potere religioso (dottore della Legge) e civile (uno dei capi, Lc 18,18). Costoro, più che a preoccuparsi per la vita eterna, sono invitati da Gesù a riflettere se quella che attualmente stanno conducendo, può chiamarsi vita.
29 Ma egli volendo giustificare se stesso disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?».
La domanda del dottore della Legge è restrittiva e egli vuol sapere quale categoria di persone può venire inclusa nel precetto dell’ amore al prossimo.
Nelle scuole rabbiniche era in corso un vivace dibattito teso a stabilire il concetto di prossimo.
Si andava dalle concezioni più larghe che ammettevano nel prossimo anche lo straniero che abitava in Israele, a quelle più rigide che fissavano il concetto di prossimo all'appartenente alla propria tribù o al solo clan familiare. Il fatto che il dottore della Legge intenda giustificarsi fa comprendere che egli era per l'interpretazione più ristretta.
30 Gesù replicando disse: «Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gerico e s'imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto.
Rifacendosi probabilmente a qualche fatto di cronaca, Gesù interrompe il dottore della Legge, dando inizio alla parabola che illustra con immagini familiari al suo interlocutore e agli ascoltatori.
Un uomo ferito, in una strada desertica come quella che da Gerusalemme conduceva a Gerico, non ha alcuna speranza di vita, a meno che non venga tempestivamente soccorso da qualche pietoso passante. Ed è proprio questa la provvidenziale situazione che Gesù sembra prospettare.
31 Per caso un sacerdote scendeva in quella via e avendolo visto, passò dall'altra parte.
Gesù aumenta nell'ascoltatore l'aspettativa. Provvidenzialmente (per caso) per quella stessa via scende un sacerdote che vede il moribondo. È giunta la salvezza?
Contrariamente a quel che l'ascoltatore s'attende, il sacerdote non si ferma e passa oltre. Gesù si sta rivolgendo a un dottore della Legge, massimo esperto della legislazione data da Mosè, e gli rinfaccia le conseguenze dell'osservanza cieca della Legge. Infatti, il comportamento del sacerdote non è dovuto a crudeltà o insensibilità, ma alla zelante ubbidienza alla Legge.
Al tempo di Gesù, Gerico era una città di sacerdoti che periodicamente salivano al tempio di Gerusalemme per officiare al culto durante otto giorni. Per essere idonei al loro servizio, i sacerdoti si sottoponevano a complicati rituali e abluzioni di purificazione che li rendevano puri, cioè adatti a offrire i sacrifici nel Tempio (Lv 22,1-9). Pertanto questo sacerdote, che scende da Gerusalemme, è ora in condizione di purità legale e deve evitare tutto quel che ora può renderlo impuro.
La Legge, nel Libro del Levitico, prescrive che un sacerdote "non dovrà rendersi immondo per il contatto con un morto"
(Lv 21,1) e
che chiunque tocca "un uomo ucciso di spada o morto di morte naturale... sarà immondo per sette giorni" (Nm 19,16).
Il sacerdote, protagonista della parabola, trovandosi di fronte a un ferito, non ha alcun dubbio su quel che deve fare. Il rispetto della Legge divina è per lui più importante della sofferenza del moribondo. Per salvare la Legge, sacrifica l'uomo.
E il sacerdote "passò dall'altra parte". Quest'espressione è la pietra tombale della religione.
La Legge, incapace di formare uomini in grado di amare, ha prodotto solo inutili ossequienti ai suoi ordinamenti. Il sacerdote è la figura emblematica di questo fallimento. Costui, nonostante il suo zelo nell'osservare la Legge, non conosce quel Dio che credeva di servire: il Dio che chiede di soccorrere l'oppresso e non gli inutili riti del Tempio.
L'osservanza della Legge è un veleno che atrofizza le naturali risposte d'amore nell'uomo, lo indurisce e lo converte in un essere mostruoso che mai si ravvedrà perché sempre si sentirà a posto con la Legge del suo Dio. Come il sacerdote protagonista della parabola, che compie il male convinto di fare il bene ed evita il bene per non fare il male. Costui pensa di onorare Dio mentre bestemmia lo Spirito santo (Lc 12,10).
Ma la parabola non è terminata e Gesù presenta un'altra possibilità per il malcapitato:
32 Similmente anche un levita trovatosi presso quel luogo, lo vide e passò dall'altra parte.
I Leviti, appartenenti alla tribù di Levi, erano gli incaricati di tutto quel che riguardava il funzionamento del Tempio, dal culto al servizio d'ordine, e anche costoro, come i
sacerdoti, dovevano essere in condizione di purità rituale.
L'atteggiamento del levita è identico a quello del sacerdote. Anche per costui l'osservanza della Legge è più importante del bene dell'uomo.
Ma per Gesù la misericordia deve prevalere sempre sull'obbedienza alla Legge, perché questa è la volontà di Dio stesso.
"Amore io voglio e non sacrificio", aveva chiesto il Signore, denunciando il tradimento dei sacerdoti che, anziché praticare la misericordia, operano infamie: "Come banditi in agguato una ciurma di sacerdoti assale sulla strada di Sichem, commette scelleratezze" (Os 6,6.9; Mt 9,13).
Nel comportamento del sacerdote e del levita, Gesù denuncia che il rispetto della Legge uccide l'uomo.
L'accusa di Gesù è grave: i briganti hanno ferito il malcapitato.
Le persone religiose lo uccidono.
Quando al bene dell'uomo viene preferito il bene della Legge, questa diventa inutile e nociva.
Il dilemma che Gesù propone al dottore della Legge è se questa deve esser osservata anche quando è causa di sofferenza per le persone.In questi casi, Dio preferisce l'osservanza della sua Legge o il bene dell'uomo? Quando esiste un conflitto tra l'ubbidienza alla Legge divina e il bene dell'uomo che cosa si sceglie, che cosa si sacrifica? Certamente il dottore della Legge è d'accordo con il comportamento tenuto dal sacerdote e dal levita che hanno osservato la Legge e si sono mantenuti puri. Il Legislatore ha appena affermato che l'amore verso Dio è più importante di quello verso il prossimo. Infatti mentre l'amore per Dio è totale e investe tutto l'uomo, quello verso il prossimo è relativo e limitato (Dt 6,4; Lv 19,18).
Ormai la sorte del moribondo sembra proprio essere segnata, ma c'è ancora un passante.
33 Un Samaritano invece, essendo in viaggio, venne presso di lui
Gesù non poteva scegliere per il suo ascoltatore un esempio più orrendo: "Un Samaritano". Proprio la categoria più temuta e più spregevole agli occhi di un ebreo.
Peggio al povero moribondo non poteva capitare: la persona che sopraggiunge è l'essere più odiato dai Giudei.
È risaputo che "i Giudei non sono in buoni rapporti con i Samaritani" (Gv 4,9), e da questo Samaritano c'è da aspettarsi solo che completi l'opera dei briganti.
Ma la reazione del Samaritano non è di odio come gli ascoltatori si aspetterebbero e neanche di indifferenza come gli altri due Giudei: c'è quell'invece che sottolinea la differenza di comportamento col sacerdote e con il levita.
Il Samaritano non è diretto né proviene dal Tempio, nel quale tra l'altro gli è interdetto l'accesso. Egli è in viaggio, libero da preoccupazioni rituali o da scrupoli cultuali.
Non teme di contrarre impurità, è già abbastanza immondo per conto suo.
e avendolo visto ebbe compassione.
Per descrivere l'atteggiamento del Samaritano Gesù afferma che costui lo vide e ebbe compassione.
Ciò che accomuna i tre passanti è che tutti e tre vedono il ferito, ma uno solo trasforma questa visione in un atteggiamento (la compassione) che comunica vita.
La radice greca del verbo avere compassione indica le viscere, considerate la sede delle passioni, e questo verbo è riservato esclusivamente a Dio e a Gesù. Effetto dello sguardo di Dio è sempre la compassione. Questa non è un sentimento, ma un'azione divina con la quale si restituisce vita dove questa non c'è.
Nel vangelo di Luca i verbi vedere e avere compassione compaiono insieme altre due volte e sempre per restituire vita. Con questi verbi l'evangelista mostra la reazione di Gesù che, vedendo la vedova di Nain portare al sepolcro il suo figlio unico, le risuscita il figliolo e, nella parabola del figliol prodigo, si descrive la reazione del padre alla vista del figlio perduto. Anche in questo caso la compassione del padre restituisce vita al figlio che "era morto ed è tornato in vita" (Lc 15, 32).
Gesù applica all'impuro Samaritano le stesse azioni compassionevoli proprie di Dio, il tre volte santo.
L'uomo al di fuori della Legge è l'unico capace di amare come Dio ama.
Il Samaritano cambia i suoi piani di viaggio. Ora per lui la cosa più importante è restituire la vita al moribondo, tutto il resto passa in secondo piano.
La descrizione dettagliata dei gesti con i quali il Samaritano si prende cura del ferito è espressione di questa sua compassione:
34 Gli si avvicinò, fasciò le sue ferite e vi versò olio e vino, caricatolo sulla propria cavalcatura lo condusse in una locanda e si prese cura di lui.
Le azioni del Samaritano sono l'esatto contrario di quelle dei briganti, del sacerdote e del levita.
Mentre il sacerdote e il levita sono passati alla larga, egli si avvicina al ferito. Mentre i briganti hanno spogliato il malcapitato, il Samaritano lo fascia; se i banditi hanno percosso il passante, il Samaritano gli cura le ferite; infine, mentre gli aggressori, il sacerdote e il levita hanno abbandonato il moribondo, il Samaritano si prende cura di lui.
Gli ascoltatori, che ben conoscevano i luoghi descritti, saranno sicuramente rimasti stupiti da un particolare: il Samaritano cede la propria cavalcatura al ferito, affrontando i disagi del difficile e faticoso percorso nel deserto. Il Samaritano si comporta come un servo che conduce l'animale con il suo padrone.
35 E l'indomani tirati fuori due denari li diede al locandiere e disse: Prenditi cura di lui e ciò che spenderai in più al mio ritorno te lo renderò.
Nelle azioni del Samaritano, Gesù illustra l'amore con il quale Dio comunica vita. Un amore completamente gratuito e incondizionato che non guarda i meriti della persona ma i suoi bisogni. Il Samaritano, per assistere il ferito, dona gratuitamente il suo tempo e anche il suo denaro senza alcuna speranza di poter ottenere qualcosa in cambio.
Gesù con questo suo insegnamento cambia il concetto di credente.
Secondo la tradizione religiosa il credente era colui che obbediva a Dio osservando la sua Legge. Per Gesù il vero credente è colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo.
Ponendo come modello di credente proprio un Samaritano, eretico e impuro, Gesù afferma che essere credente o meno non dipende dalla frequentazione del Tempio o dall'osservanza della Legge religiosa, ma da una disposizione favorevole verso gli uomini. È l'amore che determina chi crede e chi no (1 Gv 4,7), e non la Legge.
36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di chi si era imbattuto nei briganti?».
A conclusione della parabola Gesù vuol portare l'ascoltatore alla comprensione del suo significato (che capisci?, v. 26).
Il dottore della Legge ha chiesto a Gesù chi fosse il prossimo da amare (Lc 10,29).
Gesù ribalta la domanda e gli chiede chi dei tre protagonisti della parabola si è fatto prossimo del malcapitato.
Il legislatore voleva sapere fino a che punto dovesse arrivare il suo amore. Gesù gli dice da dove questo amore deve partire, perché il prossimo non è colui che viene amato ma colui che ama.
Il prossimo non è l'oggetto da amare per ottenere la ricompensa divina, ma colui che ama come Dio stesso. Per questo essere prossimo non dipende da chi si trova nel bisogno, ma da chi gli si avvicina (approssima) per aiutarlo.
Nella sequenza di azioni compiute dal Samaritano, Gesù fa comprendere che farsi prossimo dell'altro significa mettersi a suo servizio offrendogli i mezzi necessari per vivere.
37 Ed egli rispose: «Quello che ha avuto misericordia di lui».
La provocazione di Gesù è inaccettabile.
Nell'insegnamento rabbinico veniva inculcato l'odio verso i nemici, e nella parabola narrata da Gesù, il Samaritano, nemico per eccellenza dei Giudei, è l'unico che si dimostra capace d'amare.
Costretto a rispondere, il dottore della Legge evita nella sua risposta di pronunciare la repellente parola "Samaritano" e con disprezzo risponde "Quello".
Non solo.
Gesù ha descritto l'azione del Samaritano con il verbo "avere compassione", espressione che indica l'agire divino.
Il dottore della Legge, che non può accettare che un eretico possa compiere le stesse azioni di- Dio", invece di "avere compassione" (v. 33) usa il verbo "avere misericordia", con il quale si indica un comportamento umano.
Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso».
Il dibattito era iniziato con una provocazione teorica del dottore della Legge che voleva sapere da Gesù che fare per ereditare la vita eterna (v. 25).
Al termine della parabola Gesù congeda l'importante personaggio con due secchi comandi: l'invito ad andare seguito da quello di fare. Solo attraverso il servizio esercitato per amore, il dottore della Legge potrà uscire dalle tenebre e entrare nella vita.
Ponendo come modello di comportamento il Samaritano, Gesù invita il dottore della Legge a scendere dal piedistallo del prestigio e dell’ onore per mettersi a servizio dei fratelli, come il Samaritano si è fatto servo dell'uomo ferito.
Avrà imparato la lezione il dottore della Legge?
Probabilmente no.
Il dottore della Legge non può accettare che il bene dell'uomo venga prima dell'osservanza della Legge, perché non può ammettere un principio che rischierebbe di sgretolare la sua autorità di interprete autorizzato della Scrittura.
Di fatto l'ultima volta che nel vangelo di Luca si incontra ancora un dottore della Legge è di nuovo in un conflitto tra il bene della Legge e quello dell'uomo.
Gesù, trovandosi di fronte un ammalato (idropico), si rivolge ai dottori della Legge e ai
farisei chiedendo loro: "E’ lecito o no curare di sabato?" (Lc 14,2).
La loro reazione alla domanda di Gesù è il silenzio ("essi tacquero").
E Gesù prese l'infermo "per mano, lo guarì e lo congedò. Poi disse: «Chi di voi, se un asino o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato?». E non potevano rispondere a queste cose" (Lc 14,4-6).
Gesù ha posto due domande ai dottori della Legge e tutte e due le volte la loro reazione è stata il silenzio ("essi tacquero... E non potevano rispondere a queste cose").
Coloro che dovevano annunciare al popolo la Parola di Dio rimangono senza parole quando il Signore si rivolge loro.
I dottori della Legge sono muti perché ostinatamente sordi alla Parola di Dio, come i capi del popolo denunciati dal profeta Isaia: "Sono tutti cani muti incapaci di abbaiare... Tali cani avidi che non sanno saziarsi sono i pastori incapaci di comprendere. Ognuno segue la sua via, ognuno bada al proprio interesse, senza eccezione" (Is 56,10-11).
Gesù smaschera i dottori della Legge, denunciando che il loro rigore nel difendere la Legge è solo apparente. In realtà essi si fanno scudo della Legge per difendere i propri interessi, pronti a trasgredirla quando non conviene: "Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge!" (Gv 7,19).
A tutti saluti da Logio

logio venerdì 11 luglio 2003 - 0.44.41
chat di mercoledi 16 luglio ore 21
...per il prossimo mercoledì 16 luglio propongo una chat di approfondimento l "prossimo".
Chi c'è c'è, come si dice almeno dalle mie parti.

Logio venerdì 11 luglio 2003 - 20.28.54
Ancora sul prossimo
Mi viene in mente la parabola del figlio prodigo...(bella parola "prodigo" da contrapporre a "generoso"). Penso al padre che agisce da prossimo, è il prossimo di colui che ritorna, più morto che vivo, riabilitandolo, mentre il fratello, pur essendogli "vicino" per la legge della parentela, vorrebbe come minimo che non tornasse più. Poi mi viene in mente il Padre che agisce da prossimo nei confronti degli uomini, mandando il Figlio.

Esich lunedì 14 luglio 2003 - 19.44.28
Riprendo una cosa di G.Séry... e spero di essere in chat con Logio e altri...
poichè sul Forum lo spazio delle risposte risulta a qualcuno un pò nascosto, copio uno scritto di Séry che mi dispiacerebbe fosse sfuggito in quanto è stato da me trovato interessante accanto alle parole di Logio...
spero mercoledi 16 di poter essere in chat...
saluti cari a tutti.
Séry ha scritto questo:
buoni samaritani perchè buoni affaristi...
Porto un contributo che non è mio, ma un taglia incolla da un articolo di G.B.Contri che mi sembra molto opportuno.
Di mio dico solo che nella parabola c'è un rovesciamento che ricorda il continuo scambio di posto Soggetto e Altro in un rapporto che funziona bene (senza fissazione) con beneficio reciproco...
"Ama il prossimo" (e sembra che il prossimo sarebbe, per il samaritano, quell'altro che è nel bisogno) e poi "chi è stato il prossimo di quell'uomo" (e il prossimo diventa il samaritano...)...
Mi sembra un ottimo esempio del pensiero di Cristo (per cui faceva imbestialire il "nevroticismo" farisaico: legge non di natura ma di cavilli): il valore economico è sempre nel moto mai fisso della legge di beneficio (principio di piacere), che è per entrambi i soci.
Dice G.B.Contri:
Un buon esempio...
"senza separazione di spirituale-morale da giuridico-reale, è noto come "buon Samaritano". Vediamone la ragione, più corrotta come samaritanismo o amore come idea fissa superiore ossia senza ragione. La scopriamo meglio nella sua eccedenza, supplementarietà: questo uomo non si limita a non uccidere, ma opera in modo che l’altrui uccidere non vada a termine (e senza farsi giustiziere né vendicatore). Ri-costituisce l’Universo. Allo stesso tempo è persona normale - parola da riabilitare -, perché viaggia per i suoi affari. Una volta scartata l’idea fissa- l’amore come meccanismo o istinto sublime da animale spirituale, che è la più vecchia delle bestemmie: Dio amerebbe per istinto- appare la sola ragione, quella patrimoniale: l’Universo umano, rappresentato di volta in volta da ogni singolo, è suo personale bene. O anche, come si dice familiarmente: "i suoi".
Collochiamo qui il concetto giuridico di usufrutto: quel possesso di cui si continua a godere legittimamente finché lo si tratta bene, e non lo si lascia ammalorare (Agostino si è cimentato con la coppia uti/frui). In questa ragione l’individuo ha a cuore (eccolo il "cuore": è razionale) l’Universo come tale in quanto la fonte, in ogni sua parte, del bene-essere di quell’individuo. Allora la sede competente dell’universalità può essere l’individuo stesso, non lo Stato di cui sopra, che collettivizza, per espropriazione, questa potenziale facoltà individuale, e peraltro con una soluzione che non può che essere utilitaristica (calcolo).
Gesù, parlando del Samaritano, ha detto che ognuno potrebbe assumere in proprio la legge universale di beneficio personale (o "amore") – sedes iuris come si dice sedes sapientiae - senza scoraggiarsi sapendo che le cose non andavano così. Penso che sia proprio su questo punto (di potere o non potere) che ha detto: "Senza me non potete". E proprio lui trattava l’ universo come possesso personale ("i suoi" scrive S. Giovanni, "tutto [Universo] è vostro come voi di Cristo", rincarava S.Paolo).
O anche: senza mio Padre non potete. Il pensiero di Cristo sulla legislazione universale implica la concezione reale-patrimoniale (patri-moniale) del bene, non quella astratta-ideale-greca. Non c’è essere che nel ben-essere, ossia ancora il dogma della paternità."

esich lunedì 14 luglio 2003 - 19.49.13
ps: data
p.s.
lo scritto di Sèry (che riprende Contri) è datato sul forum 3 luglio 2003

Logio martedì 15 luglio 2003 - 23.04.23
Una provvisoria conclusione
In auto, con la cintura allacciata e gli anabbaglianti accesi (quella degli anabbaglianti accesi anche di giorno non l' ho ancora capita!), riflettevo su ciò che ho letto su "prossimo" e su ciò che ho scritto. Sono giunto ad una conclusione che comunico, forse con un po' di imprudenza.
L' importante è uscire di casa con il proposito, avrei scritto volentieri "la norma", di agire da prossimo, senza farsi tante domande su chi ha da essere il prossimo (avanti il prossimo!).
Ritornando alla parabola, il Samaritano trova ai suoi piedi un punto di natura che quasi non è più uomo: rapinato, malmenato, lasciato in fin di vita. Avrebbe potuto lasciare le cose così come trovate, ma davanti alla possibiltà di una perdita o a quella di un guadagno sceglie di guadagnarci. Perché? Perché sceglie di fare tutto ciò che può fare per riportare a uomo, a vita umana, quel punto di natura ormai disumanato, e così facendo opta per la possibilità di ricostituire in quel punto di natura un' opportunità di rapporti. Ecco: un uomo che potrà anche scegliere di agire in modo tale da ricevere il suo beneficio da un altro uomo che incontra.
L' altra cosa che poteva fare era quella di lasciarlo andare a cadavere: perdita, uno in meno con cui fare rapporto, da cui ricevere beneficio. Per chi suona la campana?